Le "confessioni" di Geremia


Sarà solo un abbozzo parziale quello che ora possiamo tracciare. Il profeta Geremia - che in questa domenica occupa con una sua pagina la prima lettura della liturgia - è infatti il protagonista di una delle più tragiche epoche della storia ebraica, quella che sfocerà nella rovina di Gerusalemme del 586 a.C. sotto le armate babilonesi di Nabucodonosor e nel relativo esilio del popolo.

Il suo scritto profetico, che comprende anche narrazioni in terza persona dovute al suo fedele segretario Baruch, è in assoluto il libro più ampio dell'Antico Testamento: si tratta di 21.819 parole, il 7,2% dell'intera Bibbia ebraica.

A sei chilometri a nordest di Gerusalemme si incontra il villaggio di Anatot. Là, attorno al 650 a.C., egli era nato dal sacerdote Helkia. Là, nel 626 a.C., sotto un mandono dell'orto paterno, il giovane Geremia era stato chiamato da Dio a una missione amara, quella di annunziare a Israele la fine della nazione. Timido, impacciato, era stato convinto a fatica ad accettare l'incarico. Il Signore era ricorso proprio a quel mandorlo come a un simbolo: "Cosa vedi, Geremia?... Un ramo di mandorlo!... Bene! Così io veglierò per compiere la mia parola" (1,1 1-12). Per capire questo collegamento, bisogna ricordare che in ebraico "mandorlo", shaqed, echeggia la parola shoqed, "colui che veglia" per proteggere e difendere.

Geremia è forse il profeta più autobiografico: lo dimostrano quelle che sono state chiamate le sue "Confessioni", disperse nei capitoli del suo libro, quasi un diario intimo di un'anima romantica ed emotiva. La sua è, infatti, una lacerazione profonda: egli è innamorato della sua patria, sensibile agli affetti, alla religione e alla vita serena; ed è, invece, costretto a essere la Cassandra della nazione - lo soprannomineranno magòr missabib, "terrore dappertutto" -, a essere scomunicato, perseguitato dai suoi stessi compaesani, denunciato da parenti e amici, carcerato. Non potrà neppure costruirsi una famiglia perché Dio gli imporrà il celibato, uno stato civile considerato eccentrico in Israele, oltre che fonte di solitudine ulteriore per il profeta.

Impressionante è il grido che egli lancia a Dio: "Mi hai sedotto, Signore, e io mi sono lasciato sedurre; mi hai fatto violenza e hai prevalso!" (20, 7). Non è in gioco la seduzione amorosa, come spesso si crede, bensì la circonvenzione di incapace. In quel "giorno del mandorlo" - sostiene Geremia - Dio lo ha sedotto come si circuisce un inesperto con false promesse perché acconsenta alle manovre di chi è più astuto.

E ora, nell'umiliazione più profonda, il profeta urla a Dio con estrema sincerità: "Maledetto il giorno in cui nacqui! Il giorno in cui mia madre mi generò non sia benedetto!...
Perché non mi fece morire nel grembo materno e mia madre sarebbe stata la mia tomba?
Perché mai sono uscito da quel grembo per vedere tormenti e sofferenze e finire i miei giorni nell'infamia?" (20,14-18).

Geremia morirà come profugo, costretto a migrare dai suoi compatrioti in Egitto, dopo la fine di Gerusalemme.