Sansone cieco ritrova forza in Dio


Al centro del Vangelo della liturgia di questa domenica c’è un cieco, Bartimeo, figlio di Timeo (Bartimeo), e il pensiero può correre al cieco più celebre dell’Antico Testamento, Sansone. La sua storia è narrata nei capitoli 13-16 del libro dei Giudici, pagine che sembrano quasi la sceneggiatura di un dramma, tanto sono vive e piene di avventure e colpi di scena. Su di esse domina questo eroe della piccola tribù di Dan, uomo impetuoso, passionale e torrentizio come i wadi della sua regione (la pianura meridionale della Shefela) a primavera.

Il racconto comprende molti elementi novellistici e simbolici: il nome Sansone in ebraico evoca il sole, il suo paese è Bet-Shemesh, cioè la “Casa del sole”, come il sole, egli incendia le messi (15,1-8), i suoi splendidi capelli sono come i raggi solari e la sua amica-nemica si chiama Dalila, che in ebraico è simile a lajlah, la “notte”. Le sue imprese mirabolanti richiamano le “fatiche di Ercole” e il legame forza-amore e amore-cecità rimanda a un luogo comune di tante culture.

Ma il cuore della storia è profondamente ebraico. L’annunciazione, prima, e la sua nascita, poi, seguono lo schema classico biblico della nascita dei personaggi importanti per la storia della salvezza, come l’Emmanuele (Isaia 7) o il Battista e lo stesso Gesù. Il voto del “nazireato” (dall’ebraico nazir, “consacrato”), testimoniato dalla promessa di non tagliare i capelli, è tipico dell’ebraismo (Numeri 6). Anche il suo innamoramento per Dalla, donna straniera filistea, e il relativo inganno ricalcano la condanna della Bibbia nei confronti dell’idolatria: le “prostitute” sacre erano appunto le sacerdotesse dei culti della fertilità, praticati dagli indigeni della terra di Canaan.

Lasciamo ai nostri lettori di seguire sulla Bibbia le avventure clamorose di Sansone, dalla strage con l’arma inusualedi una mascella d’asino allo scardinamento delle porte della città di Gaza, dalla passione per Dalila fino ai suoi curiosi indovinelli, dai leoni squartati a mani nude fino alle celebri funi da lui spezzate come fuscelli. La tragedia si schiude davanti a questo eroe quando
egli viene meno al suo voto di nazireo, col taglio dei capelli da parte dell’amata che opera però come spia filistea. La sua mitica forza s’affioscia: «i Filistei lo presero e gli cavarono gli occhi; lo fecero scendere a Gaza e lo legarono con catene di rame, costringendolo a girare la macina della prigione» (16,21).

Ridotto ormai a un fenomeno da circo, da esporre in occasione delle feste filistee, Sansone ritorna al suo Dio e proprio in occasione di una di queste esposizioni al pubblico suggella la sua vita con un estremo atto eroico. Egli è stato condotto nel tempio del dio Dagon (“grano”, una divinità agraria): è un’aula con colonne che reggono una galleria superiore. Lassù e nella navata impazza una festa orgiastica, con canti, danze, banchetti. Sansone sente che ormai il contrasto non è più, come in passato,
tra lui e i Filistei, ma tra il Signore e l’idolo, ed egli è solo l’occasione e lo strumento esteriore per questo scontro.

Egli, allora, prega: «Signore, ricordati di me! Dammi forza per questa volta soltanto, Dio, e in un colpo solo mi vendicherò per i miei due occhi!». Sansone si fece condurre verso le colonne del tempio, «palpò le due colonne di mezzo, sulle quali posava l’edificio; si appoggiò ad esse..., si curvò con tutta la forza e il tempio rovinò addosso ai capi e a tutto il popolo che vi era dentro», mentre egli gridava: «Che io muoia insieme con i Filistei!» (16,28-30).