Le "tre notti" di Nicodemo


Dal deserto soffiava quel vento che lo scrittore francese Francois René de Chateaubriand immaginava portasse ancora con sé le voci dei profeti e delle vittime della catastrofe di Sodoma. Gesù attendeva in quella notte proprio lui, membro del Sinedrio, la massima autorità dei farisei. Il suo nome era Nicodemo che, in greco, significa “vincitore del popolo” e che forse era un adattamento — secondo un vezzo alla moda in quei tempi — del nome aramaico Naqdimon.

È il Vangelo che si legge in questa quarta domenica di Quaresima (nel calendario romano) a presentarcelo, mentre incontra di nascosto, per non compromettersi, Gesù di Nazaret, personaggio allora piuttosto discusso. Che fosse una notte ventosa lo desuiniamo liberamente dalle parole che Cristo gli rivolge: «Il vento soffia dove vuole e ne senti la voce, ma non sai da dove venga nè dove vada: così è di chiunque è nato dallo Spirito». Frase nella quale Gesù giuoca sul doppio valore della parola ebraica ruah (ma anche del greco pneuma), “vento" e “spirito”.

È curioso notare che nel capitolo 3 del Vangelo di Giovanni (ove è conservato il racconto di questo colloquio notturno) all’inizio Nicodemo interviene dialogando con Cristo. Poi, però, egli tace e sembra quasi essere risucchiato da quella notte da cui era venuto: in scena, solenne, rimane solo Gesù, la cui parola è potente e dolce al tempo stesso. A quest’uomo, che sembra essere quasi il simbolo di chi è in ricerca e non si sa se mai approderà a una meta, egli dice:
«Dio ha tanto amato il mondo da dare il suo Figlio unigenito, perché chiunque crede in lui non muoia, ma abbia la vita eterna. Dio non ha mandato il Figlio nel mondo per giudicare il mondo, ma perché il mondo si salvi per mezzo di lui»
(3,16-17).

Nicodemo, però, non rimane indifferente a quelle parole. Riapparirà alla ribalta della vita di Gesù altre due volte, evocate sempre daI quarto Vangelo. Con coraggio egli si alzerà nel Sinedrio, che ha già deciso di arrestare Gesù, obiettando: «La nostra legge giudica forse un uomo prima di averlo ascoltato e sapere ciò che fa?» (7,51), attirandosi però una salva di ironie e di reazioni acide. Certo, egli in quella occasione non aveva avuto il coraggio di controbattere. Ma qualcosa dentro di lui gli aveva fatto capire che doveva rischiare di più.

E, così, quando Gesù era ormai stato crocifisso e deposto nel sepolcro prestatogli da un altro notabile — come lui segretamente conquistato dal profeta di Nazaret —, Giuseppe d’Arimatea, Nicodemo aveva rotto ogni indugio e, anche a rischio di compromettersi per sempre, era corso a quella tomba «portando con sé una mistura di mirra e di aloe di circa cento libbre», cioè di ben 33 chili, per imbalsamare il cadavere di Gesù (19,39). Da quel momento egli scomparirà dalle pagine evangeliche.

La tradizione cristiana posteriore gli attribuirà un Vangelo apocrifo e uno scrittore polacco, Jan Dobraczynski (1910-1994), immaginerà un suo epistolario, Le leltere di Nicodemo (ed. Morceffiana), ove Nicodemo confesserà: «Vi sono misteri nei quali bisogna avere il coraggio di gettarsi, per toccare il fondo, come ci gettiamo nell’acqua, certi che essa si aprirà sotto di noi.
Non ti è mai parso che ci siano delle cose alle quali bisogna prima credere per poterle capire?».