Razis e la rivoluzione dei Macabei


Nel brano evangelico che la liturgia di questa domenica di Pasqua ci propone c’è una frase di Gesù che allude al suo martirio in croce e alla sua risurrezione: «Per questo il Padre mi ama: perché offro la mia vita, per poi riprenderla di nuovo. Nessuno me la toglie, ma la offro da me stesso, poiché ho il potere di offrirla e il potere di riprenderla di nuovo» (Giovanni 10,17-18).
Questo atto di donazione della vita è stato ulteriormente illustrato da Gesù con un’altra frase bellissima, pronunziata nel Cenacolo l’ultima sera della sua vita terrena: «Nessuno ha un amore più grande di questo: dare la vita per i propri amici» (15,13).

Tanti martiri nella storia della cristianità hanno ascoltato questo appello e hanno imitato Cristo donando a lui e ai fratelli la loro stessa vita. Ma già nell’Antico Testamento ci sono figure analoghe, capaci di grande amore per la loro fede. Ne scegliamo una sicuramente poco nota, un notabile di Gerusalemme di nome Razis.

La sua storia è narrata in una pagina, piuttosto truculenta, di un’opera biblica di sua natura enfatica, il secondo Libro dei Maccabei (14, 37-46). Essa vuole esaltare la trionfale rivolta degli Ebrei, guidati da Giuda Maccabeo (“il martello”) contro il potere oppressivo siro-ellenistico, in nome della libertà, sia politica sia religiosa.

Siamo attorno al 161 a.C. Il re di Siria Demetrio I Sotere (regnerà dal 162 al 150 a.C.) invia un suo generale di nome Nicanore (“vincitore di uomini”) a piegare la rivoluzione dei Maccabei. Costui, avversario implacabile degli Ebrei, oltre a combattere ogni resistenza, istruisce processi sommari contro gli Ebrei più fedeli e osservanti.
Tra costoro brillava appunto l’anziano Razis, «uomo pieno d’amore per Gerusalemme: godeva così grande fama da essere chiamato per questa sua bontà padre dei Giudei». Nicanore manda per arrestano un enorme Contingente di soldati, temendo reazioni popolari.

I militari si accalcano alla porta del palazzo ove abitava Razis per appiccare il fuoco, mentre altri circondano l’edificio. Senza esitazione, l’anziano ebreo «si piantò la spada in corpo, preferendo morire nobilmente piuttosto che divenire schiavo degli empi e subire insulti indegni della sua nobiltà» (14,42). Ma con la sua mano debole egli riuscì solo a ferirsi; allora salì sul terrazzo della casa e «si lasciò cadere a precipizio sulla folla con gesto da prode... Poiché respirava ancora, con l’animo infiammato, si alzò, mentre il sangue gli usciva a fiotti e le ferite lo straziavano e, fendendo di corsa la folla, salì su uno sperone roccioso, ormai completamente esangue».

E qui, con quell’eccesso un po’ macabro che è sovente presente anche nei racconti popolari dei martiri cristiani, «si strappò gli intestini e, prendendoli con le mani, li gettò contro gli spettatori. Morì così, invocando il Signore della vita e dello spirito perché di nuovo glieli restituisse» (14,43-46). Certo, questa è una specie di suicidio e come tale suscita riserve.

Tuttavia, come accade anche in altri casi, il gesto vuole essere una sorta di olocausto esemplare perché gli altri difendano il valore della libertà in pericolo.
È per questo che la Bibbia non dà nessun giudizio morale sull’atto in sé, ma ne esalta l’aspetto testimoniale e sacrificale.