Abacuc sfama Daniele nella fossa dei leoni


L'ingresso nell’Avvento, il tempo dell’attesa messianica, ci spinge a introdurre nella nostra galleria di ntrattibiblici una serie di profeti minori, testimoni della speranza di Israele. Una speranza, però, non astratta, che faccia decollare dalla storia verso orizzonti mitici, ma radicata nella realtà del presente. Abbiamo pensato di iniziare con un profeta di cui si ignora quasi tutto, persino il significato del suo nome, Abacuc, che forse corrisponde a quello di una pianta acquatica o di un’ortensia. Qualche allusione dispersa nel suo libretto (solo 3 capitoli) ha fatto ipotizzare una sua collocazione cronologica nell’epoca del re Ioiakim, avversario di Geremia, successore nel 609 a.C. del giusto e sfortunato re Giosia, ucciso in battaglia dal faraone Necao.

Siamo, quindi, in un’epoca drammatica per il regno di Giuda, alle soglie della sua fine, mentre risuona la voce di quel Geremia di cui oggi la liturgia ci propone un brano come prima lettura (33,14-16). Il Signore — dice, infatti, Abacuc — sta per inviare «i Caldei (cioè i Babilonesi), un popoio feroce e impetuoso..., feroce e terribile», che vuole imporre «il suo diritto e la sua grandezza», i cui cavalli sono «più veloci dei leopardi e più agili dei lupi della sera», mentre i cavalieri «volano come aquila che piomba per divorare, avanzano solo per la rapina..., ammassano i prigionieri come la sabbia» (1,6-9).

Abacuc ha uno stile brillante e icastico: un commentatore ha scritto che «per l’armoniosa bellezza di alcuni passi, perla nobiltà e la sincerità dell’accento, il suo libretto è uno dei più attraenti della Bibbia». Ma per la tradizione cristiana egli è diventato celebre per una frase di sole tre parole ebraiche: saddfq be’emunatòjihjeh, «il giusto vivrà per la sua fede» (2,4).

Il senso inteso dal profeta era semplice: chi confida in Dio, restandogli fedele, salverà la sua vita, mentre «soccomberà chi non ha l’animo retto». Noi sappiamo, però, che san Paolo ha assunto questa frase come sintesi e sigla del suo capolavoro teologico, la Lettera ai Romani (1,17), vera e propria base della sua teologia della giustificazione attraverso la fede. L’Apostolo l’intendeva così: «Colui che è giusto (giustificato) per la fede, costui vivrà».

Dal libretto già breve di Abacuc bisogna forse scorporare anche la terza pagina, il capitolo 3. Essa, infatti, secondo gli studiosi contiene un inno arcaico, composto forse tre secoli prima, nel X secolo a.C. È un testo potente che mette in scena una terribile epifania divina che sconvolge l’universo. Preceduto da una terrificante avanguardia, la Peste personificata, e seguito da una retroguardia altrettanto paurosa, la Febbre ardente, il Signore irrompe sulla scena scavalcando monti e seminando panico.
Nulla può opporsi al divino Arciere che scaglia lampi come frecce. Ma su questo orizzonte devastato spunta un’aurora di speranza e di gioia: «il Signore Dio è la mia forza, egli rende i miei piedi come quelli delle cerve e sulle alture mi fa canmiinare» (3,19).

Una curiosità. Abacuc riappare in un racconto dai toni miracolistici eleggendari del libro di Daniele (14,3 1-42). Un giorno aveva preparato una minestra e stava portandola in campagna ai mietitori. Un angelo «lo afferrò per i capelli e con la velocità del vento lo trasferì in Babilonia e lo posò sull’orlo della fossa dei leoni» dov’era confinato Daniele. «Gridò Abacuc: Daniele, Daniele, prendi il cibo che Dio ti ha mandato!». Daniele si sfamò, «mentre l’angelo di Dio riportava subito Abacuc» in Giudea, sempre per via aerea. Unbell’esempio di solidarietà tra profeti!