Due Donne salvano Israele
 
 
Ai piedi del Tabor, il colle che la tradizione ha considerato come la sede della Trasfigurazione di Gesù, c'è un villaggio arabo che nella sua denominazione Daburriyya echeggia il nome di un'eroina biblica, Debora, in ebraico ape, forse da un simbolo totemico del suo clan. Il libro dei Giudici ci ricorda che era considerata profetessa e sedeva sotto una palma ove risolveva, come in un tribunale campestre, le sentenze giudiziarie. Essa era divenuta giudice, termine che equivale al nostro governatore, infrangendo i tabù maschilisti dell'antico Vicino Oriente. Anzi, era stata lei a lanciare le tribù ebraiche in una campagna militare contro gli indigeni Cananei che opprimevano Israele.

Di quella battaglia abbiamo nel libro dei Giudici due versioni: la prima in prosa nel capitolo 4; la seconda in poesia, nel capitolo 5, in un'ode della stessa Debora, vera e propria madre della patria. Il testo è forse una delle pagine più antiche della letteratura ebraica ed è originalissimo nel montaggio delle scene e nel ritmo vivace dell'azione. In apertura, quasi accompagnato da una marcia reale, avanza dal Sinai il Signore in una cornice di tuoni, tempeste e folgori (5,4-5). Subito dopo l'obiettivo si sposta sui villaggi ebraici, atterriti e impotenti: le stesse carovane dovevano deviare sotto l'incubo di attentati e sabotaggi; l'esercito era inesistente; i politici ebrei inetti..., «fin quando sorsi io, Debora, fin quando sorsi come madre in Israele» (5,6-8)

S'intona il grido di battaglia. «Destati, destati, Debora, destati, destati e intonaun canto!». Al canto dell'eroina i principi ebrei su asine bianche, i pastori dagli abbeveratoi e la folla dai villaggi, si mettono in marcia. Ecco la parata militare delle tribù ebraiche, pronte all'attacco (5,9-18). Si scatena la battaglia contro i Cananei guidati dal generale Sisara, battaglia che non è descritta ma solo evocata attraverso una tempesta che, ingrossando il fiume Quishon nella pianura della Galilea, fa impantanare i pesanti carri nemici, permettendo alla cavalleria ebraica di irrompere in modo fulmineo; «Martellarono gli zoccoli dei cavalli, al galoppo, al galoppo dei corsieri» (5, 19-23).

Ancora una volta l'obiettivo si sposta e coglie una scena a margine che ha per protagonista un'altra donna, Giaele.
Il generale nemico, Sisara, ripara da lei, spossato e assetato, chiedendo e ottenendo una coppa di cagliata.
La donna lo lascia addormentare e poi gli pianta il piolo della sua tenda nel cranio. Una sequenza rapida diverbi regge la scena: «chiese... diede... offrì... stese... colpì... percosse... fracassò... trapassò...».
E alla fine una ripetizione emozionante: «ai piedi di lei, (Sisara) si contorse, cadde, giacque; ai piedi di lei si contorse, cadde; dove si contorse, là cadde sfinito» (5,24-27).
Ben più debole sarà la ripresa di Manzoni nella sua ode, Mano 1821:
«quel (Dio) che in pugno alla maschia Giaele / pose il maglio, ed il colpo guidò». E la finale è tutta concentrata sulla tragica illusione della madre di Sisara che attende il figlio trionfatore, che mai ritornerà (5,28-30).