IL POTERE ASSOLUTO GENERA IL TERRORE
  
 
Chi non conosce il fascino delle parabole di Cristo? Attraverso il gioco dei simboli, delle vicende quotidiane, dei colori della natura si intesseva il messaggio del Regno di Dio.

La parabola, cioè il racconto esemplare, fa parte però di tutte le letterature non solo religiose.

Noi ora presenteremo la più antica parabola biblica, presente nel capitolo 9 del libro dei Giudici, un delizioso testo poetico che ha per tema i pericoli del potere.

Un tema per altro universale. John Acton (1834-1902), storico e politico inglese, nei suoi Saggi e studi storici affermava:
«Il potere tende a corrompere, e il potere assoluto corrompe al di là di ogni redenzione. I grandi uomini sono quasi sempre uomini malvagi».

È un po’ questa la tesi anche dell’antica parabola che sulla vetta di quello che diverrà il monte sacro dei Samaritani, il Garizim, un personaggio di quella regione, Iotam, grida perché i suoi concittadini, abitanti di Sichem, ascoltino.
Essi, infatti, stavano per proclamare re una figura oscura, Abimelek, senza calcolare quello che ne sarebbe derivato (finora Israele non aveva avuto nessun sovrano).
La parabola ha una tonalità favolistica: come nelle fiabe sono di scena alcuni alberi parlanti.
Anzi, gli alberi sono riuniti in assemblea proprio per eleggere il loro sovrano. E quale scelta migliore se non quella dell’ulivo, pianta feconda e preziosa, tipica del panorama mediterraneo? Ma ecco la sua replica: «Rinuncerò al mio olio, grazie al quale si onorano dèi e uomini, e andrò ad agitarmi sugli alberi?» (9,9). Come, allora, non pensare al fico, i cui frutti sono deliziosi e il cui fogliame fa ombra, tant’è vero che per dire che si era in pace nella Bibbia si dichiarava che «ognuno viveva all’ombra del suo fico»? Ma anche il fico declina l’invito: «Rinuncerò alla mia dolcezza e al mio frutto squisito e andrò ad agitarmi sugli alberi?» (9,11). Tocca, allora, alla terza pianta tipica della terra di Israele, la vite. Ma identica è la risposta: «Rinuncerò al mio mosto che allieta dèi e uomini, e andrò ad agitarmi sugli alberi?» (9,13).

Si noti come il potere venga definito un “agitarsi, una specie di frenesia che assomiglia alla violenza del vento. A questo punto non rimane che una specie di vegetazione che alligna nel Vicino Oriente anche con la scarsità d’acqua: è il rovo, cioè gli arbusti secchi, spinosi, bassi che sfruttano spesso gli altri alberi per ergersi. Eccolo, dunque, interpellato.

E la sua è una risposta non solo affermativa, ma segnata dall’arroganza e dalla prevaricazione del potere: «Se ungerete me re su di voi, venite, rifugiatevi alla mia ombra. Altrimenti, esca un fuoco dal rovo e divori i cedri del Libano!» (9,15).
È evidente la provocazione: il rovo è basso, eppure invita tutti gli alberi ben più elevati a chinarsi per rifugiarsi alla sua ombra; è modesto e arido, ma proprio per questo si sente pronto a incendiarsi e a mandare in cenere anche i maestosi cedri del libano, qualora osino reagire. Il potere assoluto genera terrore e, come scriveva Leonardo Sciascia nel romanzo Il cavaliere e la morte (1989), «la sicurezza del potere si fonda proprio sull’insicurezza dei cittadini».