Rapito in estasi dalla terra al cielo


Siamo nell’anno 51. San Paolo è a Corinto. Alle spalle ha il ricordo delle settimane trascorse a Tessalonica, capitale della Macedonia, dell’accoglienza festosa dei pagani, della dura reazione degli Ebrei là residenti, della sommossa da loro ordita e della fuga a cui è stato costretto, il discepolo Timoteo gli reca ora notizie della neonata Chiesa tessalonicese e delle sue prime incertezze.
Paolo decide, allora, di inviare un messaggio a quella comunità, «da leggersi a tutti i fratelli»: è la prima Lettera ai Tessalonicesi, il primo scritto paolino a noi giunto, quasi certamente il primo testo del Nuovo Testamento.

Proponiamo ora questa Lettera anche perché ben s’adatta al clima dell’Avvento che sta iniziando. Serpeggia, infatti, nelle pagine di quest’opera una specie di brivido d’attesa: la Chiesa di quella città sentiva come imminente la nuova e definitiva venuta del Signore per suggellare la storia.
L’Apostolo cerca di contrastare questa tensione eccessiva che, come si vedrà, svaluta l’impegno nel presente e, usando un’immagine introdotta da Gesù, elimina ogni tentazione di avere oroscopi sulla fine del mondo: «Il giorno del Signore verrà come un ladro nella notte» (5,2).

È, certo, necessaria la vigilanza e la veglia, senza però fanatismi e ossessioni perché «Dio non ci ha destinati all’ira ma a ottenere la salvezza per mezzo del Signore nostro Gesù Cristo» (5,9). Anzi, contro l’eccitazione di coloro che si dimettono dalle responsabilità quotidiane per decollare idealmente verso quell’alba eterna di luce, Paolo raccomanda come «punto d’onore quello di vivere in pace, di attendere ai propri impegni, di lavorare con le proprie mani così da condurre una vita dignitosa di fronte agli estranei e da non aver bisogno di nessuno» (4,11-12).

Tuttavia anche l’Apostolo vuole gettare uno sguardo su quell’orizzonte atteso ma ignoto, forse per non sembrare troppo evasivo. Egli cerca, però, di risolvere solo un quesito secondario avanzato dai cristiani di Tessalonica: nell’istante supremo, coloro che saranno ancora in vita alla seconda venuta del Cristo quale sorte avranno? Ecco la risposta paolina intrisa del linguaggio simbolico apocalittico, linguaggio che abbiamo già imparato a conoscere a suo tempo leggendo il libro dell’Apocalisse: «I morti in Cristo risorgeranno. Poi, noi ancor vivi e superstiti, saremo rapiti insieme con loro nella morte per andare incontro al Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore» (4,16-17).

Scenari cosmici, dunque, per un passaggio indolore dal tempo all’eterno, dallo spazio terreno all’infinito celeste. Una visione che l’Apostolo nella prima Lettera ai Corinzi in qualche modo varierà, introducendo la necessità di una metamorfosi radicale anche dei viventi in quel transito estremo: «Non tutti moriremo, ma tutti saremo trasformati» (15,51). La risposta di Paolo, a quanto pare, non basterà a calmare i Tessalonicesi. Ci sarà una seconda Lettera a loro indirizzata, più tesa e di più ardua lettura, segno comunque di un cristianesimo che non si perde e disperde nelle pieghe della storia, ma che neppure migra verso i cieli mitici e mistici dell’alienazione religiosa.