Una prorompente cascata di luce


Fede e amore erano come le due stelle che si accendevano nel cielo dello spirito mentre, l’ultima sera della sua vita terrena, Gesù rivolgeva il suo testamento ai discepoli riuniti nel Cenacolo, un testamento raccolto nei capitoli 13-17 del Vangelo di Giovanni.
Fede e amore sono anche le due stelle che risplendono in un altro importante scritto giovanneo, la sua Prima Lettera che in realtà si presenta come un trattato teologico o un’omelia (mancano il mittente, l’indirizzo iniziale, i destinatari e il saluto finale).

In essa, infatti, sono ben fissi due capisaldi a cui la Chiesa — allora attraversata da una crisi nella dottrina e da divisioni nella comunione — deve costantemente riferirsi. Da un lato, è necessaria la professione di fede nell’Incarnazione, cioè nella venuta del Figlio di Dio nell’umanità: «Da questo potete conoscere lo Spirito di Dio: ogni Spirito che confessa che Gesù Cristo è venuto nella carne, è da Dio» (4,2). D’altro lato, è necessaria la professione concreta dell’agàpe, cioè dell’amore fraterno: «Questo è il comandamento di Dio: dobbiamo credere nel nome del Figlio suo Gesù Cristo e dobbiamo amarci reciprocamente, secondo il comandamento che egli ci ha dato» (3,23).

Su queste due realtà è Costruita anche l’indimenticabile duplice definizione di Dio. Egli è innanzitutto rappresentato come la luce che si rivela: ho Theò sfòs estin, «Dio è luce e in lui non è tenebra» (1,5). Egli è, però, anche amore che si comunica: ho Theòs agàpe estin, «Dio è amore» (4,8.16). L’intreccio tra questi due volti divini si rifiette anche nel credente che ama: «Se camminiamo nella luce — come Egli è nella luce — siamo in comunione gli uni con gli altri... Chi ama suo fratello dimora nella luce» (1,7; 2,10).

Sarà soprattutto l’amore a essere cantato in pagine di straordinaria intensità e fragranza. Si tratta di una specie di cascata simbolica. L’amore discende da Dio stesso e diffonde le sue acque attraverso il Figlio suo Gesù Cristo, il segno tangibile ( «che abbiamo ascoltato, i nostri occhi hanno contemplato, le nostre mani toccato») dell’amore divino. Ma questa cascata d’amore, che ha uno dei suoi punti più vigorosi nella croce di Cristo, procede diramandosi nell’umanità intera. Qui l’appello si fa forte e reiterato e mostra chiaramente che l’agàpe cristiana non è mera filantropia, ma una realtà teologica.

Infatti, «noi amiamo, perché egli ci ha amati per primo... Se abbiamo conosciuto l’amore dal fatto che egli ha dato la sua vita per noi, anche noi dobbiamo dare la vita per i fratelli» (4,19; 3,16). Aveva ragione, allora, il cantante Fabrizio De André quando nella canzone "Il testamento di Tito”, appartenente alla raccolta La buona novella, alludendo alla morte di Cristo in croce davanti a sua madre Maria, cantava:
«Io nel vedere quest’uomo che muore, / madre, ho imparato l’amore. /Nella pietà che non cede al rancore, / madre, ho scoperto l’amore».