L'albero della Vita e l'Acqua Santa


La scena della Pentecoste è di sua natura universalistica con quel confluire di popoli che professano a una sola voce la fede in Cristo. Ebbene, nell’ultima grande pagina dell’Apocalisse, il libro biblico che abbiamo scelto come compagno di lettura in questo periodo pasquale, c’è una frase che di solito è tradotta in modo impreciso. In 21,3 si legge a proposito della nuova e perfetta città di Dio, la Gerusalemme celeste: «Ecco la tenda di Dio con gli uomini! Egli s’accamperà con loro ed essi saranno i suoi popoli ed egli sarà il Dio-con-loro».

Ora, la formula biblica classica dell’alleanza è: «Essi sono il suo popoio ed egli è il loro Dio». È suggestivo che l’autore dell’Apocalisse corregga l’espressione (così non fanno molti traduttori) dal singolare al plurale e introduca ormai tutte le nazioni della terra, e non solo Israele, come «popolo di Dio».

Ma l’ultimo sguardo che noi ora daremo a questa città, segno della meta perfetta a cui Dio vuole condurre la storia, si ferma su un simbolo descritto nel capitolo 22, quello del «fiume d’acqua viva» e dell'albero della vita».
Giovanni si ispira alla penultima pagina di Ezechiele (47,1-12): il profeta vedeva fluire dal tempio della Gerusalemme del futuro un ruscello che, scendendo verso il deserto e il Mar Morto, l’avrebbe fatto pullulare di pesci e di vita. È un’«acqua santa» che feconda ogni aridità e dona la vita vera e piena. È per questo che al fiume si associa quella pianta che non è certo registrata nei manuali di botanica, l’«albero della vita», presente nel giardino dell’Eden (Genesi 2,9; 3,24), ove era segno di quell’immortalità, allora vietata all’uomo peccatore, adesso offerta ai giusti perché vivano sempre nell’intimità beata del Signore. Con questa immagine sta per calare il sipario sulla visione finale di luce e di speranza dell’Apocalisse, vero approdo di un libro scandito dai tormento, dal dramma del male e dall’incubo oscuro della storia.

Le ultime righe sono, infatti, tutte striate di attesa festosa. Domina un verbo greco, érchomai, «venire»: «Lo Spirito e la Sposa dicono: Vieni! E chi ascolta dica: Vieni! Chi ha sete venga!... Chi attesta queste cose dice: Sì, verrò presto! Amen! Vieni, Signore Gesù!» (22,17.20).
A questa invocazione è forse sottesa un’antica giaculatoria aramaica in uso presso le prime comunità cristiane palestinesi, ma ricordata anche da Paolo ai cristiani di Corinto, città greca (1,16,22): Maranatha’ Espressione che di per sé è passibile di due significati: Marana’ tha' «Signore, vieni!», e Maran’ atha' «il Signore è venuto». Sì, perché Cristo è già venuto nella storia, ma ancora deve venire — e i giusti attendono con impazienza quest’ultima venuta — a suggello della storia umana.

Il libro dell’Apocalisse è, allora, il libro del presente e del futuro, della lotta e dell’attesa, del seme e dell’albero, della Gerusalemme storica e della Gerusalemme celeste, della paura e della gioia, del giudizio e della gloria.