Moltitudine immsensa di "Segnati"


Continua il nostro viaggio all’interno dell’Apocalisse: è come inoltrarsi in una foresta lussureggiante di simboli, immagini, figure, ma anche voci, suoni, movimenti di folle. È il caso del capitolo che abbiamo scelto, il 7, popolato da 144.000 «segnati», cioè persone sulle quali viene impresso un sigillo divino, probabile allusione al battesimo e rimando a quel passo del profeta Ezechiele (9,4) nel quale i giusti ricevono il «segno del tau», ultima lettera dell’alfabeto ebraico, che allora equivaleva a una firma di autenticazione e che curiosamente aveva una forma di croce.
Il numero è ovviamente simbolico: il 12 di base evoca le tribù ebraiche e il 1000 è la cifra dell’immensità.
Ma questa folla dì eletti si allarga ulteriormente in una moltitudine sterminata e universale. La loro raffigurazione entrerà nell’iconografia cristiana soprattutto per incarnare i martiri. In piedi, rivestiti di tuniche bianche, colore della luce divina e della gloria pasquale, costoro agitano palme come nei cortei trionfali e nella festa ebraica delle Capanne. Essi sono coloro che hanno valicato la via stretta della «grande tribolazione» (7,14), una locuzione nota anche ai Vangeli (Matteo 24,21) per indicare il momento dell’irruzione divina a giudizio della storia, con la netta divisione tra bene e male.

Suggestiva è l’idea che il candore di quelle vesti sia stato ottenuto immergendole nel sangue rosso del martirio: attraverso la croce si va alla luce, per crucem ad lucem, come diceva l’antico adagio cristiano.
Significativa è anche l’irruzione del coro: l’Apocalisse è tutta attraversata da canti e musiche. Si tratta qui di un doppio coro. Da un lato, la moltitudine immensa intona un’acclamazione in onore del Dio Salvatore e dell’Agnello, il Cristo morto e risorto. Dall’altro lato, la corte celeste adorante eleva una «dossologia», cioè un inno di lode alla gloria divina nel quale si evocano tre doni divini (sapienza, potenza e forza) e quattro risposte umane (benedizione, gloria, ringraziamento, onore) così da raggiungere un altro dei numeri perfetti cari all’Apocalisse, il sette.

Cantando, la processione ha raggiunto trono divino: si potrebbe immaginare di ascoltare una delle vane musiche che il francese Olivier Messiaen (1908-1992) ha intessuto su spunti dell’Apocalisse, come il Quartetto per la fine dei tempi o I colori della città celeste. Dall’alto del suo trono il Signore stende su quella sconfinata assemblea liturgica la sua tenda santa, trasformando così quella comunità in un tempio vivente. E attingendo a una profezia di Isaia (49,10), si dipinge quell’immenso popolo come immerso in una beatitudine estrema e piena: «Non soffriranno più fame né sete, né il sole li colpirà, né alcuna calura, perché l’Agnello al centro del trono li farà pascolare e li guiderà alle sorgenti dell’acqua della vita; e Dio tergerà ogni lacrima dai loro occhi» (7,16-17).
Cala il sipario su questa scena di massa che ha come base il popolo di Dio della prima Alleanza con le sue 12 tribù ma che sconfina nell’universalità perché la successiva «moltitudine enorme» appartiene a «ogni nazione, tribù, popolo e lingua» (7,9).
Una nota curiosa a margine: nella lista delle 12 tribù è omesso Dan, sostituito da Manasse, perché nella Bibbia questa tribù è tratteggiata come incline all’idolatria e nel cristianesimo sant’Ireneo (Il sec.) immaginava che l’Anticristo nascesse dalla tribù di Dan.